Autore dei quadri: Giuliano
Per anni ho vissuto al piano sottostante ai miei, da lì portavo avanti la mia vita. Negli ultimi tempi colmavo la solitudine con la fantasia, ero convinto che mai avrei potuto soddisfare l’ambizione che nutrivo. La mia vita sentimentale era piena per tutta la notte poi mi risvegliavo di giorno solo in quel covo. Era un carico davvero pesante da sopportare. In aiuto la dolcezza di certe donne assai più giovani e compagne generose, più di me. Si vede che ancora dovevo dare di più.
Continuare a negare la malattia rendeva tutto impossibile. Così le mie serate le condividevo con amici potenti o simpatici sorseggiando bottiglie di vino pregiato. Ormai ero al colmo e la malattia si era sfogata in maniera violenta. Non so se ogni vita abbia stessa dignità. Quello che penso è che intorno a me si sono concentrate moltissime persone, queste persone mi hanno conosciuto sono state coinvolte; alla fine la soddisfazione è di tutti.
Vedo che alle verifiche partecipano persone che a diverso titolo si sono prese in carico la mia salute; vedo che funziona, vedo che i miei cari si sentono bene e anche io mi sento bene. La cautela che prevede la mia malattia è da tenere in considerazione. So bene che se non abbandono le cure ed evito di ricadere nelle sostanze posso avere una vita come le altre persone.
Oggi come oggi sono felice. Ho un bagaglio esperienziale di tutto conto e posso sperare di farmi una vita con l’affetto e la stima delle persone a me care. Sempre è successo che ad avvilirmi fossi io, mi davo dello stupido anche quando nessuno lo ha mai pensato di me. Ho avuto la fortuna di amare donne e di essere amato; la fortuna che anche nella malattia ho preservato un fisico sano, che le mie doti cognitive sono integre e che ho progetti per la mia vita di oggi; pensare che oggi sia più importante di ieri e di domani.
Autore del quadro: Giuliano
Se non fossi come sono, se non fossi così folle, se fossi stato meno folle non avrei mai vinto la malattia. Il momento critico è stato quando ho cominciato a vedere nero e mi sono reso conto che il castello che avevo costruito mi stava crollando addosso, a quel punto sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa. Di mio non vi era rimasto, nulla nemmeno riuscivo pensare Alice. Mi vedevo abitare in quel bunker dove il cecchino appostato nella garitta prospiciente lo studio, messo lì, pronto a far fuoco una volta ricevuto l’ordine, era rinsecchito anch’egli a forza di attendere; a quel punto non avevo neppure il desiderio di vivere.
Quanti problemi quella casa, il mio volere abitare diversamente penso sia un sacrosanto diritto. Ho il diritto di abitare un posto mio; sono tre anni che lavoro per questo. Alice ormai è grande, ogni tanto la vedo. Assomiglia moltissimo alla madre ed è sempre in compagnia della sua amica più cara, quella che si è portata dietro fin dalle elementari, la sua mente razionale. Faccio finta di niente, mi gonfio di gioia, come con la madre non le riesco dire niente, ci sarebbero così tante cose che l’unica cosa è tacere. Forse potrei partire con un ciao ti ricordi, poi mi rendo conto che non importa, che è ora che rimanga in disparte.
Delle varie forme di sofferenza la più cocente è stata la segregazione. Nessuna me l’ha imposta, forse l’ho vissuta senza averla cercata, forse ero troppo debole per vincerla. Tra le cose del mondo ho scelto di essere genitore senza mai avere la prole. Però ora non so di che lamentarmi. Bene o male avrò quella casa e con essa forse, se troverò la persona giusta e ne avrò voglia, potrei chi sa diventare padre.