Mi trovo di nuovo infognato, ora che pensavo di esserne fuori sono andato a ricadere nell’alcol. Non pensavo fosse un problema così grosso da non potermi permettere nemmeno una birra analcolica. Già me l’hanno spiegato ben bene: anche la birra analcolica, analcolica non è. Pensavo che almeno quel minimo me lo potevo permettere. Invece no. A me fa male. Non posso nemmeno prendere le gocce, che anche quelle mi fanno male. Sono quattro anni che sono in ballo. Otto mesi di diagnosi e cura, un anno e qualche mese di comunità, due anni in residenza e un altro anno di comunità; tutti consideravano il mio percorso importante, un esempio. Ora tutto viene messo in dubbio, ora dubitano che possa farcela a dire basta una volta per tutte. I mesi passati in diagnosi e cura furono davvero lunghi perché per descrivere con un aggettivo quel posto uno vale l’altro. Ci arrivai con un TSO (trattamento sanitario obbligatorio) dopo che avevo incendiato il solaio di casa. Al TSO vi si può opporre in tribunale ma il margine che il giudizio ti sia favorevole è praticamente nullo. Appena arrivò la sentenza (che non tardò ad arrivare) il medico mi fece un TSO di quattro settimane quando di solito è di una. Quando me lo comunicò, sembra un ovvietà dirlo, mi sembrò che il mondo mi crollasse addosso. Rabbia e incredulità furono le sensazioni più nitide che ricordo di quel momento. Se non conoscete cos’è diagnosi e cura, dovete sapere alcune cose. Ci sono infermieri ovunque, ognuno con un mazzo di chiavi che servono per aprire e per chiudere le porte di accesso. Solitamente al spdc si arriva di notte e per prima cosa ti fanno un’iniezione e ti legano al letto se mostri segni di irrequietezza. L’iniezione ti fa dormire tutta la notte e quando ti svegli legato ti viene di chiedere aiuto agli infermieri poiché ti sleghino, non sempre sono solerti. Il presidio di diagnosi e cura è un lungo corridoio con ai lati le camere a due letti con una sala fumo, e in fondo un paio di macchine erogatrici di bevande. Di fronte alla sala fumo c’è la guardiola con gli infermieri e di fianco la sala mensa con due divani e un televisore, oltre ai tavoli. Il tempo non passa mai. L’unico svago sono le sigarette e le storie degli altri. I miei erano spaventati e gli fu consigliato quando venirmi a trovare. Ricordo come lo avessi di fronte ora il volto di mio padre, e quello di mia madre: non c’è che dire. Il mio risveglio in diagnosi e cura non fu un risveglio tranquillo: tutt’altro. La consapevolezza che i miei erano le vittime del mio folle gesto e che non se lo sono meritato, che tutto era dipeso da un momento di follia e che solo per un fato benevolo non vi erano state ricadute peggiori di quelle che sarebbero potute esservi… fu un risveglio pieno di dubbi. Tra mille dubbi, alcune certezze, non so come mi vennero: non avrei più chiesto soldi ai miei, avrei fatto con le mie risorse, non sarei più entrato in urto con loro, non avrei più pesato sulla famiglia e, se ve ne fosse stato bisogno, sarei andato a lavorare. Per fortuna mi capitò un medico scrupoloso che mi concedeva numerosi colloqui, questi mi aiutavano a dare un senso a quel tempo altrimenti infinito. Dopo otto mesi, la svolta: il mio dire sì alla comunità e il mio trasferimento nella residenza del centro di salute mentale di via Paul Harris. A quindici anni che vuoi capire? Non avevo dei veri amici ma solo frequentazioni che lasciavano il segno che lasciavano. Ad un certo punto in casa arrivò un libro che era meglio non fosse mai entrato: “marijwana e altre storie”; un libro che esaltava le qualità benefiche della cannabis che insegnava come utilizzarla e che sosteneva che i cannabinoidi erano una droga leggera rispetto eroina e cocaina. Lessi quel libro e mi rimase la curiosità di provare lo spinello. Presto da quell’assaggio ve ne furono altri poi cominciai ad associarli alla birra e ben presto ne divenni dipendente. A quell’epoca arrivavano circa settanta chili di fumo alla settimana a Modena, ma erano già assegnati, per cui chi non era del giro faceva fatica a trovarne. Così io passavo le mie sera in giro per le varie compagnie a elemosinare dieci mila lire di fumo. In quella vita c’era molta tristezza, molto vuoto e molta disperazione. Ero capace di girare per ore poi quando lo trovavo lo consumavo e andavo a bere. In altre parole, e senza tanti eufemismi, era proprio una vita di merda. Ben presto i miei genitori si accorsero della vita che conducevo e mi tolsero la fiducia. Mio padre non ha mai smesso di volermi bene ma non sopportava che io buttassi la mia vita così giù da un cesso. Ben presto fui schiacciato dai sensi di colpa ma mai mi balenò l’idea di smettere. Provai anche la cocaina e qualche acido, dopodiché la malattia mi si leggeva in volto al primo istante. Fui indirizzato da un primario presso una casa di cura sui colli bolognesi. Fu lì che ebbi il primo ricovero. Fu un trattamento sanitario obbligatorio alla fine del quale ero venti chili più grasso; anche il mio modo di pensare era diverso, ormai ero un paziente psichiatrico e allora non c’erano i mezzi che ci sono oggi, era la fine degli anni ottanta. Cominciai un lungo percorso di psicoanalisi e tutte le settimane tornavo a Bologna; il sabato il mio appuntamento era fisso a vedere di sbrogliare il nodo che mi aveva fatto sbandare così tanto. Sentivo che quei cinquanta minuti mi erano utili, ne avevo un giovamento e mi davano la forza per affrontare la settimana. I medicinali erano fastidiosi, per lo più neurolettici, con effetti collaterali che mi colpivano i nervi e mi creavano una tensione al limite della sopportazione; specialmente agli arti. Presto la casa di cura “ai colli” divenne un punto di riferimento. Quando le cose in famiglia diventavano critiche era li che mi rifugiavo. Avevo stretto amicizia con il primario che in via tutta eccezionale era anche il mio psicanalista, quando cercavo rifugio per me c’era sempre posto. Era un bell’ambiente si mangiava bene e quando poteva mi riservava la stanza migliore, quella singola con un ampio terrazzo. Almeno durante i ricoveri mi si proibiva di fumare, intendo canne, però poi mi si concedeva il permesso di fare lunghe passeggiate e di andare al bar o ovunque volessi. Per circa dieci anni questa fu la mia vita fin quanto durò la psicoanalisi, finche non stetti abbastanza bene per affrontare un lavoro, fu allora che il dottor B mi indirizzò ai servizi di Modena.
Giuliano