La guarigione impossibile – prima parte

Mi trovo di nuovo infognato, ora che pensavo di esserne fuori sono andato a ricadere nell’alcol. Non pensavo fosse un problema così grosso da non potermi permettere nemmeno una birra analcolica. Già me l’hanno spiegato ben bene: anche la birra analcolica, analcolica non è. Pensavo che almeno quel minimo me lo potevo permettere. Invece no. A me fa male. Non posso nemmeno prendere le gocce, che anche quelle mi fanno male. Sono quattro anni che sono in ballo. Otto mesi di diagnosi e cura, un anno e qualche mese di comunità, due anni in residenza e un altro anno di comunità; tutti consideravano il mio percorso importante, un esempio. Ora tutto viene messo in dubbio, ora dubitano che possa farcela a dire basta una volta per tutte. I mesi passati in diagnosi e cura furono davvero lunghi perché per descrivere con un aggettivo quel posto uno vale l’altro. Ci arrivai con un TSO (trattamento sanitario obbligatorio) dopo che avevo incendiato il solaio di casa. Al TSO vi si può opporre in tribunale ma il margine che il giudizio ti sia favorevole è praticamente nullo. Appena arrivò la sentenza (che non tardò ad arrivare) il medico mi fece un TSO di quattro settimane quando di solito è di una. Quando me lo comunicò, sembra un ovvietà dirlo, mi sembrò che il mondo mi crollasse addosso. Rabbia e incredulità furono le sensazioni più nitide che ricordo di quel momento. Se non conoscete cos’è diagnosi e cura, dovete sapere alcune cose. Ci sono infermieri ovunque, ognuno con un mazzo di chiavi che servono per aprire e per chiudere le porte di accesso. Solitamente al spdc si arriva di notte e per prima cosa ti fanno un’iniezione e ti legano al letto se mostri segni di irrequietezza. L’iniezione ti fa dormire tutta la notte e quando ti svegli legato ti viene di chiedere aiuto agli infermieri poiché ti sleghino, non sempre sono solerti. Il presidio di diagnosi e cura è un lungo corridoio con ai lati le camere a due letti con una sala fumo, e in fondo un paio di macchine erogatrici di bevande. Di fronte alla sala fumo c’è la guardiola con gli infermieri e di fianco la sala mensa con due divani e un televisore, oltre ai tavoli. Il tempo non passa mai. L’unico svago sono le sigarette e le storie degli altri. I miei erano spaventati e gli fu consigliato quando venirmi a trovare. Ricordo come lo avessi di fronte ora il volto di mio padre, e quello di mia madre: non c’è che dire. Il mio risveglio in diagnosi e cura non fu un risveglio tranquillo: tutt’altro. La consapevolezza che i miei erano le vittime del mio folle gesto e che non se lo sono meritato, che tutto era dipeso da un momento di follia e che solo per un fato benevolo non vi erano state ricadute peggiori di quelle che sarebbero potute esservi… fu un risveglio pieno di dubbi. Tra mille dubbi, alcune certezze, non so come mi vennero: non avrei più chiesto soldi ai miei, avrei fatto con le mie risorse, non sarei più entrato in urto con loro, non avrei più pesato sulla famiglia e, se ve ne fosse stato bisogno, sarei andato a lavorare. Per fortuna mi capitò un medico scrupoloso che mi concedeva numerosi colloqui, questi mi aiutavano a dare un senso a quel tempo altrimenti infinito. Dopo otto mesi, la svolta: il mio dire sì alla comunità e il mio trasferimento nella residenza del centro di salute mentale di via Paul Harris. A quindici anni che vuoi capire? Non avevo dei veri amici ma solo frequentazioni che lasciavano il segno che lasciavano. Ad un certo punto in casa arrivò un libro che era meglio non fosse mai entrato: “marijwana e altre storie”; un libro che esaltava le qualità benefiche della cannabis che insegnava come utilizzarla e che sosteneva che i cannabinoidi erano una droga leggera rispetto eroina e cocaina. Lessi quel libro e mi rimase la curiosità di provare lo spinello. Presto da quell’assaggio ve ne furono altri poi cominciai ad associarli alla birra e ben presto ne divenni dipendente. A quell’epoca arrivavano circa settanta chili di fumo alla settimana a Modena, ma erano già assegnati, per cui chi non era del giro faceva fatica a trovarne. Così io passavo le mie sera in giro per le varie compagnie a elemosinare dieci mila lire di fumo. In quella vita c’era molta tristezza, molto vuoto e molta disperazione. Ero capace di girare per ore poi quando lo trovavo lo consumavo e andavo a bere. In altre parole, e senza tanti eufemismi, era proprio una vita di merda. Ben presto i miei genitori si accorsero della vita che conducevo e mi tolsero la fiducia. Mio padre non ha mai smesso di volermi bene ma non sopportava che io buttassi la mia vita così giù da un cesso. Ben presto fui schiacciato dai sensi di colpa ma mai mi balenò l’idea di smettere. Provai anche la cocaina e qualche acido, dopodiché la malattia mi si leggeva in volto al primo istante. Fui indirizzato da un primario presso una casa di cura sui colli bolognesi. Fu lì che ebbi il primo ricovero. Fu un trattamento sanitario obbligatorio alla fine del quale ero venti chili più grasso; anche il mio modo di pensare era diverso, ormai ero un paziente psichiatrico e allora non c’erano i mezzi che ci sono oggi, era la fine degli anni ottanta. Cominciai un lungo percorso di psicoanalisi e tutte le settimane tornavo a Bologna; il sabato il mio appuntamento era fisso a vedere di sbrogliare il nodo che mi aveva fatto sbandare così tanto. Sentivo che quei cinquanta minuti mi erano utili, ne avevo un giovamento e mi davano la forza per affrontare la settimana. I medicinali erano fastidiosi, per lo più neurolettici, con effetti collaterali che mi colpivano i nervi e mi creavano una tensione al limite della sopportazione; specialmente agli arti. Presto la casa di cura “ai colli” divenne un punto di riferimento. Quando le cose in famiglia diventavano critiche era li che mi rifugiavo. Avevo stretto amicizia con il primario che in via tutta eccezionale era anche il mio psicanalista, quando cercavo rifugio per me c’era sempre posto. Era un bell’ambiente si mangiava bene e quando poteva mi riservava la stanza migliore, quella singola con un ampio terrazzo. Almeno durante i ricoveri mi si proibiva di fumare, intendo canne, però poi mi si concedeva il permesso di fare lunghe passeggiate e di andare al bar o ovunque volessi. Per circa dieci anni questa fu la mia vita fin quanto durò la psicoanalisi, finche non stetti abbastanza bene per affrontare un lavoro, fu allora che il dottor B mi indirizzò ai servizi di Modena.

Giuliano

Vi racconto un po’ di me…

Un volta ero molto brava a scrivere, solo che adesso non lo sono più, blocco, disavventure, non riesco più a scrivere. Oggi però voglio raccontare un po’ di me…

Mi chiamo Nella, ho 56 anni, sono siciliana, vengo da Catania. Sono finita a Modena perché facevo l’infermiera professionale. Sono arrivata in questa città l’11 novembre dell’83. Sono una persona sincera. Sono buona. Almeno, nonno Ermanno me lo diceva sempre.
Catania la ricordo come una città completamente diversa da Modena, lì ho vissuto degli anni belli. Mi piaceva quando la sera ci riunivamo con tutti gli amici e scherzavo in piazza. Studiavo, ho fatto due anni di università in lingue e letterature straniere, non ho dato nessun esame, poi mi sono ritirata perché non facevo altro che bighellonare! Di Catania mi piaceva la sincerità della gente, nel senso che la gente ti dice le cose in faccia, non te le manda a dire. Mi piaceva vivere lì perché avevo un miliardo di amici. Alcuni li sento ancora, quando scendo giù li vado sempre a trovare.
Sono molto legata alla mia parentela, alla mia famiglia, alle mie amiche e ai miei amici. Volevo molto bene a mia mamma, quando è morta lei, mi sono ammalata, nell’81, ero tantissimo legata a lei… Ho una sorella, che ha quasi 8 anni meno di me e ora ho anche una nipotina di 15 anni!

Nonostante io sia nata a Catania e mi piaceva molto lì, devo dire che a Modena mi trovo bene. Mi piace qui, la gente è accogliente, è gente che si affeziona molto, sono sempre stata aiutata dai modenesi, sia economicamente che psicologicamente. Ho provato a scendere giù per sempre, ma non mi sono trovata più bene, e sono ritornata indietro.
Tra le persone che ho conosciuto qui, tra i miei nuovi amici, c’è Betta. Betta è della Valtellina, lavoravamo tutte e due al poliambulatorio nell‘88-’89. La Betta è quella che mi salva sempre nelle situazioni peggiori. Mi ha aiutata nel trasloco, mi ha sempre cercata, siamo uscite assieme diverse volte con i suoi amici, quando ho avuto bisogno di soldi me li ha sempre prestati. Quando sono stata a casa sua è sempre stata gentile con me. E’ una vera amica.
Nella mia vita qui in comunità ho diversi compiti: sono responsabile della cucina e dei turni, a rotazione dobbiamo fare la spesa o cucinare. Cucinare noi è meglio perché abbiamo la possibilità di scegliere cose più buone!
Sono molto religiosa. Ho frequentato per un po’ i mormoni, mi piace il loro modo di fare. La loro religione prevede dei divieti che secondo me sono giusti, ad esempio smettere di fumare. Li ho incontrati per caso qui in città a Modena, ero con A., ho incontrato una ragazza che me li ha fatti conoscere meglio. Quando abitavo in centro stavo molto tempo da sola. Vivevo sola ed avevo bisogno di compagnia e ho cominciato a frequentarli.
Tra le persone importanti qui nella mia vita c’è il mio uomo, A., è molto più giovane, è un gentiluomo, mi fa ridere molto, sdrammatizza. Ci siamo conosciuti per caso perché abitavamo nello stesso palazzo, nel ‘99, abbiamo convissuto fino al 2009. Sono gelosissima di lui, anche se prima glielo davo a vedere e adesso non più!
Questo è quello che volevo raccontare di me, è un po’ della mia storia… Forse in futuro vi racconterò altro.

Nella

Schizofrenia – parte seconda

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Autore del quadro: Giuliano

Mi ero giurato che da quel momento avrei fatto con solo le mie forze, in quel momento ne avevo davvero poche. Giurai altresì che i miei genitori venivano prima di me, come è naturale che sia, e io non sarei più entrato in conflitto con loro. Al Colombarone non erano soliti trattare con doppie diagnosi, è un centro diurno che si occupa di riabilitare vissuti di tossicodipendenza e abusi d’alcol. Dopo un colloquio preventivo il dottor S. decise insieme a D. di darmi una possibilità. Fin dal colloquio preliminare pensai che quella era la soluzione migliore, forse l’unica, visto che rifiutavo le comunità classiche. Il Colombarone era strutturato con un programma della durata di un anno più o meno suddiviso in blocchi di quattro mesi in quattro mesi. Si arrivava alla mattina alle otto e si andava a casa alle cinque. Questo per tutti gli altri ospiti; io dopo le cinque ero accompagnato alla residenza del CSM (Centro di Salute Mentale), dove all’epoca alloggiavo.
Dopo il primo colloquio al SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) ne ebbi un altro presso il Colombarone con un paio di educatori che mi convinsero sulla validità del progetto. D. pose come vincolo non sindacabile che io prendessi un farmaco, l’antabuse, che li rendesse certi della mia sobrietà, dopodiché fui pronto per iniziare.

Ricordo che vi erano varie mansioni da svolgere: dall’occuparsi degli ambienti interni come di quelli esterni, all’apparecchiare, sparecchiare e così via. Subito mi misero ad occuparmi del giardino. Io volevo fare bella figura. La schiena non mi reggeva, avevo passato otto mesi su di un letto al SPDC e i muscoli erano indolenziti, così davo due colpi di scopa e mi fermavo, due colpi di scopa e mi fermavo. Poi però la soddisfazione di aver portato a termine il lavoro a pensarci mi inorgoglisce ancora. Quello fu il primo giorno, dopo il lavoro, la pausa e il contatto con gli altri ospiti della struttura, con S., B., A. e gli altri. Mi ricordo che B. fu la prima a presentarsi. Lei si presentò, poi si interessò chiedendomi come mi chiamavo e cosa facevo, e io le risposi. La risposta fu circa così: Giuliano, schizofrenico. Ero chiaramente disturbato ma lei e S. furono dolcissime e non diedero peso a quella risposta, disturbata.
B. e S. avevano avuto un vissuto di amicizia che si era interrotto, non a causa di uno screzio ma semplicemente perché ad un certo punto presero strade diverse. Ora le loro strade si erano congiunte di nuovo ed era davvero bello vederle felici insieme. Così nei loro racconti imparavo della vita vissuta in comunità, non al Colombarone, ma in quelle dove stai ventiquattro ore al giorno, dove nascono amori e sodalizi. Imparai attraverso ciò che succedeva al Colombarone quali erano i vincoli di un’amicizia profonda. Fino ad allora avevo sempre pensato di avere degli amici: così non era. Di solito io e i miei amici ci frequentavamo per fumare, ma non era vera amicizia. I primi sei mesi di comunità furono davvero duri, ero sempre guardato a vista, quando rientravo in residenza non potevo neanche andare alla macchinetta del caffè che dovevo essere accompagnato. Poi pian piano le maglie si sono allargate, ad ogni passo dimostravo di essere pronto per il successivo.

I miei genitori furono davvero splendidi, e anche i miei fratelli, cui non ho mai dovuto spiegare nulla del perché era successo quello che era successo. Per aiutarmi mia madre cucinava sempre pietanze nuove e mio padre mi portava al cinema sia di sabato che di domenica. Ancora oggi, non così assiduamente, vado la domenica al cinema con mio padre. Ci facciamo compagnia, e se riusciamo, vediamo un bel film.

Dopo un anno e una manciata di mesi con mia grande gioia il Colombarone è finito. Avevo messo una pietra che al momento era ancora nulla rispetto al lavoro che mi sarebbe servito per arrivare a completare l’opera. Avevo ancora da tessere una rete sociale alla quale potermi aggrappare, dovevo ancora acquisire quelle capacità che mi avrebbero consentito di avere una vita autonoma, dovevo scrollarmi di dosso quell’etichetta così grave di pericolosità che mi ero creato come conseguenza del mio non trovare risposte allo stare male. Fu in quel frangente che trovai un amico. Un amico sincero, fedele, simpatico e di compagnia, di tanta compagnia che mi aiutò molto e al quale sarò sempre grato. Intanto vivevo sempre nella residenza del CSM. Da lì intrapresi nuovi percorsi, con il teatro, con il “social point” (il social point è un’organizzazione che si occupa di inserire soggetti svantaggiati nel tessuto relazionale cittadino), con il centro diurno, sempre all’interno del CSM. Dopo più di due anni di residenza arrivò la notizia che non doveva mai arrivare, ma che mi aspettavo: un anno in una comunità psichiatrica. Penso che se il mondo non mi crollò addosso è perché ha basi solide, ma non ci volevo credere, ancora un anno intero in una comunità psichiatrica, invece è stato così.

Giovedì vedo B. che è il proprietario dell’appartamento dove andrò a stare con Domenico. Domenico è un altro mio amico che ho conosciuto in residenza. Saremo lontani da quei vincoli imposti dalle istituzioni, avremo una vita autonoma e indipendente, anche se sarò poco distante dalla comunità; meglio così, non si sa mai che debba avere bisogno. Un anno, anche se il mio medico dice che passa velocemente, è stato faticoso. Di buono c’è che ho imparato a rendermi indipendente nello svolgere quelle mansioni che l’accudimento di una casa necessita, e che in fondo, ospiti e operatori, sono persone simpatiche con cui è stato bello relazionarsi.

Ho voluto raccontarvi questa storia perché avevo promesso di parlare, tra le altre cose, di salute mentale. In poco più di tre anni ho riassunto il senso di una vita intera. Ho mantenuto fede ai principi che mi ero posto: di non pesare più sull’economia familiare, di diventarne invece una risorsa. Mi sto ancora togliendo le croste di un paradigma durato più di trent’anni, ma questo è il suo lieto fine. Sono consapevole che è solo un voltare pagina da un passato di enorme sofferenza per guardare oltre, per vedere diritto in fronte quello che la vita può ancora offrirmi. Ho voluto scrivere questo come esempio di recovery, di quel percorso che un malato mentale deve ripercorrere ogni giorno della sua vita poiché la mente di un malato mentale è in divenire.

Schizofrenia – parte prima

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Autore del quadro: Giuliano

Cos’è la mente? E cos’è la salute mentale? E ancora, cos’è la malattia mentale? A queste domande cercherà di rispondere questo libro. Tutto è nato con me e tutto finirà con me. Prima, solo le cose che già esistono, e dopo ciò che sopravvivrà; ma io, la mia coscienza, la mia persona, siamo quel tempo che mi è stato di esistere. Se fossi un perditempo, un bontempone che ama scrivere, e se volessi essere originale potrei sostenere l’ipotesi che il creato non è altro che la raffigurazione della mia mente, che nulla è materiale e che tutto fuori di me è “l’olistica” rappresentazione dei miei sensi. Ciò nonostante, penso che la materia di cui è fatto il mondo e l’universo stesso, siano vita; e la mente è quella che sa organizzare con diversi gradi di giudizio l’esistente.

Nei racconti di mia madre, da bimbo, a confronto con i miei fratelli ma anche con gli altri bambini, ero diverso. Ero affettuoso, introverso e timido, esprimevo una tenerezza che non era comune. Solo nel tempo con gli anni mi son dato una risposta per questa diversità: ero incline all’autismo.

Per indagare una materia bisogna innegabilmente prevederne l’esistenza. Questa considerazione ci può aiutare se vogliamo fare un’indagine seria su ciò che significa “malattia mentale”. Malattia mentale non è sinonimo di follia, non è sinonimo di trasgressione. Si può affermare che la malattia mentale, a diversi livelli, rappresenta un’incapacità di analisi degli stimoli che ci pervengono dall’esterno. La follia è lo scollamento totale con la realtà. La trasgressione, quando si parla di regole, è uscire dall’ordinamento giuridico. Solo una di queste segue un iter giuridico che non prevede l’applicazione del diritto canonico, ed è l’infermità mentale.
Lo sguardo tenero di una madre per il figlio muta di intensità se il figlio soffre; diventa protettivo, se potesse, si sostituirebbe al male. E cambiano gli occhi e il modo di vedere il mondo.

Così, dire quando e perché mi sono ammalato… la risposta che mi sono dato è che la malattia è nata con me. Poi non so se cercare di evitare le linee dei marciapiedi, estraniarmi in classe e fumare spinelli, il non mettermi mai in gioco per non soffrire e vivere una vita mezzana, da soli o tutti insieme questi elementi rappresentano la sintomatologia di una malattia sufficiente per ricavarne una diagnosi.

Fatto sta che la mia diagnosi è quella.

La mia settimana tipo a Sottosopra

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Autore del quadro: Giuliano

Il lunedì parte con la sveglia, faccio colazione poi, mi tocca il ripristino della sala della cucina e metto le cose nella lavastoviglie. Prima però prendo la terapia, poi parlo con l’operatore di turno per vedere gli impegni della settimana entrante. Oggi vado al CUP per prenotare delle visite e degli esami. Mi sbrigo che è ora di pranzo, quindi pranzo e subito dopo vado a far le analisi delle urine. Finito le analisi vado in associazione torno a casa che c’è il gruppo; faccio il gruppo, mi fermo per fumare una sigaretta ed è ora di cena. Lavo i piatti metto tutto nella lavastoviglie e mi siedo al computer fin verso le undici. Prendo la terapia e vado a letto non prima di concedermi mezz’ora di assoluto relax.

Martedì mi alzo verso le 9.00, faccio colazione, prendo la terapia e vado a fare la spesa. Torno a casa, faccio la lavatrice e stendo. Poi ho il pomeriggio tutto per me e scelgo se dipingere o leggere; non ho nulla da leggere quindi dipingo. La sera mangiamo la spesa fatta alla mattina, faccio i piatti e vado a casa di Domenico a mangiare due fiori di zucca preparati con la pastella e fritti. Torno per le 22.00, prendo la terapia, mezz’ora di assoluto relax, e a letto.

Mercoledì. Mi alzo alle otto, faccio colazione, prendo la terapia, ripristino settimanale della camera, pulisco i bagni e vado dai miei. Nel primo pomeriggio sono in laboratorio. Torno per le 6.00, faccio il gruppo organizzativo, sigaretta, ed è ora di cena. Faccio i piatti, mi siedo al computer, sono le 23.00, prendo la terapia, trenta minuti di assoluto relax e a letto.

Giovedì. Mattino, laboratorio dalle 9.30 fino alle 12.00, pranzo frugale, altro laboratorio dalle 14.30 fino alle 19.00, rientro a casa, leggo la posta, faccio i piatti, alle 22.00 prendo la terapia e vado a letto.

Venerdì. Mi alzo, faccio colazione, lavo il bagno, vado a fare la spesa, poi ho tutto il giorno per trovarmi qualcosa da fare. Alle 20.00 ceno, lavo i piatti, mi guardo un film, prendo la terapia, 30 minuti di relax e a letto.

Sabato. Mi alzo, mi lavo, come tutte le mattine faccio colazione, prendo la terapia e vado a casa dai miei. Mangio, alle 15.00 laboratorio di teatro fino alle 17.00, torno dai miei, ceno e torno in comunità.

Domenica. Mi alzo alle 9.00, faccio colazione, prendo la terapia, vado a casa dei miei, pranzo, vado al cinema con il vecchio, torniamo dal cinema, ceniamo e torno a casa.

Questo è ciò che mi aspetta tutte le settimane, a volte qualcosa di più, altre qualcosa di meno, ma di solito l’ossatura è questa. Devo dire che non me la passo male, è anche divertente. Certo, ci sono momenti belli, momenti meno belli, momenti brutti, ma diciamo che me la cavo. Poi c’è questa cosa del blog, per cui devo ringraziare Ornella e Mattia, che mi allieta quando altrimenti ci sarebbe noia.

Vi avevo promesso altre storie dopo quella di Alice, oggi è questa, domani vedremo.

P.S. Cari amici di sottosopra fatevi in quattro. C’è un concorso a premi che si svolge sul sito titolato the roqk. Il concorso si chiama “Ragionevoli speranze”. Se i miei quadri vi sono piaciuti li potete votare e lì ne troverete alcuni, vecchi e nuovi. Ogni voto vale un gradino, vince chi arriva prima a 100. Per partecipare occorre iscriversi ma sono tutte notizie che trovate sul sito. Se dovessi vincere ve ne sarei grato e avrei ripagato un po di piacevole lavoro fatto con voi. Un saluto e un abbraccio da the roqk.
http://www.theroqk.com/it/artista/383/0/0/0/ART/search-user.html  (il link per votarmi)

Il mondo segreto di Alice – Fine

Il tempo di salpare di prendere visione delle cabine che ecco il motoscafo era già al largo. In coperta, una tavola imbandita e la visione di tutta la costa da Ravenna al Conero. Durante il tragitto in macchina Alice e Greta erano molto curiose; chi era mai quel padre tanto misterioso? Ora che avevano visto la barca lo erano ancora di più. Fabio puntualmente rispondeva alle loro domande ma si rendeva conto del loro stupore perché era anche il suo e quello di Davide. Avevano conosciuto il padre, che impartiva loro lezioni, ma ora lo vedevano all’opera e neppure loro pensavano potesse arrivare a tanto. Si era fatta mezzanotte e il cambusiere invitò gli ospiti a sedere a tavola; con loro si sedette anche in capitano. Il menu prevedeva carpaccio di tonno con salsa di ricci e vongole; lumachine di mare in umido, canocchie e polpo, capesante e sedano. Di primo, zuppa e spaghetti allo scoglio. Di secondo spiedini e frittura, tutto innaffiato con del verdicchio e del trebbiano d’annata. Le ragazze non erano abituate a mangiare e a bere tanto ma non si tirarono indietro.

Mentre si mangiava il capitano illustrava alle figlie le avventure passate insieme al padre nella guerra in Iraq e in Afghanistan e i ricordi di quand’erano stati a scuola insieme. “Voi ragazze vedete questo, ma tuo padre tutto ciò non se lo potrà mai permettere; il mestiere di tuo padre Alice rende tanto merito ma anche tanta fatica, e soprattutto i soldi che ha in tasca se li deve guadagnare come tutti, con il lavoro che trova, perché è essenziale che rimanga nell’anonimato. Tutto quello che avete visto oggi è stato possibile per la stima che tuo padre riceve dai suoi contatti.”

Erano le due quando finirono di mangiare; il capitano tornò in cabina e le ragazze si sedettero in salotto. L’atmosfera era ridanciana ed era venuto il momento di stappare una bottiglia di spumante. Ormai si era rotto definitivamente il ghiaccio; dopo una prima bottiglia un’altra poi un’altra ancora, così erano venute le quattro. Tutti erano decisamente sbronzi. Greta e Alice, talmente erano brille, si addormentarono in cabina insieme, con Alice che declinava il nome di Peter quasi ad invocarlo.

E qua il viaggio finisce. Prima ancora di arrivare a Paros; prima ancora di tornare. Tutto il lusso descritto nasce dalla fervente immaginazione di chi scrive. Alice stessa è un’immaginazione. Di vero rimangono le mie paure la mia voglia di crescere con delle cose vere, le notti in bianco pensate a cercare di dare un’educazione e di immaginarmi come sarebbe potuto essere avere un figlio. Tali sono i dettagli che penso possano essere già tanto. Non c’è amarezza nel constatare che la fantasia è la cosa più vera. Ho vissuto e vivo ancora con l’amore che questa figlia non mia mi ha dato. Ora che la storia di Alice finisce mi concentrerò sulla vita reale, su come va da queste parti, mi riferisco in particolare qui in comunità e alle diverse attività che svolgo al di fuori. Spero che anche voi abbiate un poco fantasticato con me e che il vostro giudizio non sia così grave poiché raccontare questa storia mi è piaciuto e mi ha impegnato. Un ringraziamento a tutti voi per i commenti che avete lasciato sul sito e grazie per avermi incoraggiato.

A rileggerci presto

Giuliano

Il mondo segreto di Alice – parte 6

numero1

Autore del quadro: Giuliano

Alice è sempre stata una bambina tranquilla che si faceva voler bene. Fin dal nido si legò a Greta, anche lei con un bel carattere. Presto le due famiglie divennero amiche e favorirono il legame tra le due bambine. Così i genitori si trovarono d’accordo nel mandarle all’asilo e alle elementari insieme. Greta era la terza di quattro fratelli. I genitori erano persone semplici, simpatiche, che facevano sacrifici per dare un’educazione ai figli, più di una volta sono intervenuto per aiutarli e ne sono sempre stato contento.

Ora che le ragazze erano grandi il loro legame sembrava davvero indissolubile. Erano amiche e complici. Così, l’avventura l’avevano nel sangue. Partite con due ragazzi con un mandato delle madri alla scoperta del padre legittimo mai conosciuto (che gli avevano detto essere un pezzo grosso del sismi) erano davvero incuriosite.

Io approdai agli studi di scienze politiche dopo aver già acquisito un diploma superiore in fisica delle particelle quando mi proposero di intraprendere la specializzazione di mediatore culturale accettai. Si trattava di inquadrarsi in una nuova figura professionale ad alta specializzazione. Così approfondii i miei studi e li arricchii di materie batteriologiche e chimiche. In contemporanea insieme ad altri scienziati demmo via al progetto “Genoma”. Eravamo un gruppo di scienziati che credeva che la prole non fosse il risultato equivalente del patrimonio genetico dei genitori ma che fosse qualcosa di diverso. Dopo 25 anni riuscimmo a sintetizzare l’intera catena del DNA. Fu un successo. Intanto i problemi incalzavano. Non ultimi quelli di salute.

Sul perché non volli mai vedere mia figlia fino al compimento del suo diciottesimo anno di vita era legato molto al mio lavoro che mi impegnava su più fronti. In primo luogo essere un ufficiale dei servizi segreti con mansioni operative avrebbe potuto esporre la mia famiglia a rappresaglie qualora mi avessero voluto colpire, in secondo luogo era davvero difficile poter conciliare un luogo dove poter rimanere. Io non ho mai rinunciato ad esserle vicino, le ho sempre fatto regali per il compleanno o a Natale e l’avere la complicità della madre ci rendeva comunque una famiglia.

Stavano per arrivare a Ravenna e l’atmosfera era ridanciana. Alice e Greta erano felici di festeggiare il compleanno su di una Ferrari con due ragazzi simpatici e pieni di risorse, così diversi da ciò che avevano conosciuto prima. Se tutto andava secondo i piani la mattina del giorno dopo si sarebbero trovate a Paros. Ad aspettarle, ormeggiato al porto, un cabinato a motore di quindici metri prestato al padre per l’occasione da un collega arabo. Lo stupore sembrava rubare il respiro non solo alle ragazze. Intanto Alice pensava al suo Peter con un poco di nostalgia.

Peter era un ragazzo di origini inglesi che Alice aveva conosciuto ad una festa di carnevale e di cui si era invaghita. I due si erano poi rivisti altre volte e sembrava che le cose funzionassero. Ora Peter era andato in Inghilterra ma sarebbe tornato presto.

Erano tutti a bordo con la nave pronta a salpare. Avrebbero navigato tutta la notte ma nessuno avrebbe dormito. Ad Alice e Greta erano state riservate due cabine diverse, entrambe matrimoniali, con un enorme guardaroba dove avrebbero potuto scegliere i vestiti che più garbavano loro, per non parlare delle scarpiere… Tutto quello che poteva piacere a due giovani donne.