Un pensiero sull’attuale crisi economica

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Si parla di crisi congiunturale, strutturale o di sistema per definire una crisi economica. L’economia si interessa di tutti gli aspetti di consumo e dei suo corrispettivi spesa e risparmio. Fare una storia sull’attuale crisi non servirebbe a molto se l’intento è fare qualcosa per uscirne. Sul come uscirne il dibattito è sul tavolo di molti economisti molti dei quali vorrebbero un ritorno alla Lira e vorrebbero uscire dalla zona Euro. Questa idea mi sembra un suicidio. Ottimo per uscire da una crisi ma la conseguenza è la morte politica, cosa inaccettabile da una nazione come la nostra. Una proposta un poco più coraggiosa è quella di rilanciare il consumo. Per fare in modo che si rilanci il consumo bisogna ridistribuire il reddito in modo che le famiglie abbiano maggiore capacità di acquisto, in questo modo si rilanciano le imprese che sono chiamate a produrre e si crea occupazione. Negli anni scorsi si è chiesto agli italiani di fare sacrifici con lo spauracchio che eravamo in un periodo di crisi, e penso si siano fatti, ora deve avvenire il rilancio. Per far questo occorrono risorse. Penso che ai pensionati con meno di ottocento euro al mese non si possa chiedere molto altro. Capitali ingenti in forma di un maggiore carico fiscale si potrebbero ottenere dalle pensioni che fino ad ora hanno avuto il privilegio di non subire la crisi, con conti alla mano un buon calcolatore potrebbe fare una stima precisa di chi in questi anni ha percepito, e questi capitali devono necessariamente rientrare nella cosa pubblica. La medesima operazione andrebbe fatta sulla popolazione attiva. Non ultime, le banche devono far emergere capitali in forma di prestito a garanzia di chi ha avuto il coraggio di mantenere un’impresa con enormi sacrifici in attesa che il mercato si riprenda.

Se si uscirà da questa crisi con un sistema rafforzato, con più garanzie ed equità per tutti, il nostro paese potrà attingere al suo patrimonio che è di eccellenza in tutti i suoi molteplici aspetti. Non dipingo lo scenario più pessimistico, perché credo che si uscirà in un modo o nell’altro dalla crisi, vorrei fossero fatti i passi indispensabili a ridare dignità al nostro paese e non dar credito a persone mediocri che legiferano senza cognizione di causa mal consigliati, cattivi politici che antepongono interessi di parte alla cosa pubblica. Capisco che qualcuno storcerà il naso, ma se non si interviene si potrebbero aprire scenari ancora più gravi dell’attuale situazione, che è già gravissima.

Giuliano

Schizofrenia – parte seconda

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Autore del quadro: Giuliano

Mi ero giurato che da quel momento avrei fatto con solo le mie forze, in quel momento ne avevo davvero poche. Giurai altresì che i miei genitori venivano prima di me, come è naturale che sia, e io non sarei più entrato in conflitto con loro. Al Colombarone non erano soliti trattare con doppie diagnosi, è un centro diurno che si occupa di riabilitare vissuti di tossicodipendenza e abusi d’alcol. Dopo un colloquio preventivo il dottor S. decise insieme a D. di darmi una possibilità. Fin dal colloquio preliminare pensai che quella era la soluzione migliore, forse l’unica, visto che rifiutavo le comunità classiche. Il Colombarone era strutturato con un programma della durata di un anno più o meno suddiviso in blocchi di quattro mesi in quattro mesi. Si arrivava alla mattina alle otto e si andava a casa alle cinque. Questo per tutti gli altri ospiti; io dopo le cinque ero accompagnato alla residenza del CSM (Centro di Salute Mentale), dove all’epoca alloggiavo.
Dopo il primo colloquio al SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) ne ebbi un altro presso il Colombarone con un paio di educatori che mi convinsero sulla validità del progetto. D. pose come vincolo non sindacabile che io prendessi un farmaco, l’antabuse, che li rendesse certi della mia sobrietà, dopodiché fui pronto per iniziare.

Ricordo che vi erano varie mansioni da svolgere: dall’occuparsi degli ambienti interni come di quelli esterni, all’apparecchiare, sparecchiare e così via. Subito mi misero ad occuparmi del giardino. Io volevo fare bella figura. La schiena non mi reggeva, avevo passato otto mesi su di un letto al SPDC e i muscoli erano indolenziti, così davo due colpi di scopa e mi fermavo, due colpi di scopa e mi fermavo. Poi però la soddisfazione di aver portato a termine il lavoro a pensarci mi inorgoglisce ancora. Quello fu il primo giorno, dopo il lavoro, la pausa e il contatto con gli altri ospiti della struttura, con S., B., A. e gli altri. Mi ricordo che B. fu la prima a presentarsi. Lei si presentò, poi si interessò chiedendomi come mi chiamavo e cosa facevo, e io le risposi. La risposta fu circa così: Giuliano, schizofrenico. Ero chiaramente disturbato ma lei e S. furono dolcissime e non diedero peso a quella risposta, disturbata.
B. e S. avevano avuto un vissuto di amicizia che si era interrotto, non a causa di uno screzio ma semplicemente perché ad un certo punto presero strade diverse. Ora le loro strade si erano congiunte di nuovo ed era davvero bello vederle felici insieme. Così nei loro racconti imparavo della vita vissuta in comunità, non al Colombarone, ma in quelle dove stai ventiquattro ore al giorno, dove nascono amori e sodalizi. Imparai attraverso ciò che succedeva al Colombarone quali erano i vincoli di un’amicizia profonda. Fino ad allora avevo sempre pensato di avere degli amici: così non era. Di solito io e i miei amici ci frequentavamo per fumare, ma non era vera amicizia. I primi sei mesi di comunità furono davvero duri, ero sempre guardato a vista, quando rientravo in residenza non potevo neanche andare alla macchinetta del caffè che dovevo essere accompagnato. Poi pian piano le maglie si sono allargate, ad ogni passo dimostravo di essere pronto per il successivo.

I miei genitori furono davvero splendidi, e anche i miei fratelli, cui non ho mai dovuto spiegare nulla del perché era successo quello che era successo. Per aiutarmi mia madre cucinava sempre pietanze nuove e mio padre mi portava al cinema sia di sabato che di domenica. Ancora oggi, non così assiduamente, vado la domenica al cinema con mio padre. Ci facciamo compagnia, e se riusciamo, vediamo un bel film.

Dopo un anno e una manciata di mesi con mia grande gioia il Colombarone è finito. Avevo messo una pietra che al momento era ancora nulla rispetto al lavoro che mi sarebbe servito per arrivare a completare l’opera. Avevo ancora da tessere una rete sociale alla quale potermi aggrappare, dovevo ancora acquisire quelle capacità che mi avrebbero consentito di avere una vita autonoma, dovevo scrollarmi di dosso quell’etichetta così grave di pericolosità che mi ero creato come conseguenza del mio non trovare risposte allo stare male. Fu in quel frangente che trovai un amico. Un amico sincero, fedele, simpatico e di compagnia, di tanta compagnia che mi aiutò molto e al quale sarò sempre grato. Intanto vivevo sempre nella residenza del CSM. Da lì intrapresi nuovi percorsi, con il teatro, con il “social point” (il social point è un’organizzazione che si occupa di inserire soggetti svantaggiati nel tessuto relazionale cittadino), con il centro diurno, sempre all’interno del CSM. Dopo più di due anni di residenza arrivò la notizia che non doveva mai arrivare, ma che mi aspettavo: un anno in una comunità psichiatrica. Penso che se il mondo non mi crollò addosso è perché ha basi solide, ma non ci volevo credere, ancora un anno intero in una comunità psichiatrica, invece è stato così.

Giovedì vedo B. che è il proprietario dell’appartamento dove andrò a stare con Domenico. Domenico è un altro mio amico che ho conosciuto in residenza. Saremo lontani da quei vincoli imposti dalle istituzioni, avremo una vita autonoma e indipendente, anche se sarò poco distante dalla comunità; meglio così, non si sa mai che debba avere bisogno. Un anno, anche se il mio medico dice che passa velocemente, è stato faticoso. Di buono c’è che ho imparato a rendermi indipendente nello svolgere quelle mansioni che l’accudimento di una casa necessita, e che in fondo, ospiti e operatori, sono persone simpatiche con cui è stato bello relazionarsi.

Ho voluto raccontarvi questa storia perché avevo promesso di parlare, tra le altre cose, di salute mentale. In poco più di tre anni ho riassunto il senso di una vita intera. Ho mantenuto fede ai principi che mi ero posto: di non pesare più sull’economia familiare, di diventarne invece una risorsa. Mi sto ancora togliendo le croste di un paradigma durato più di trent’anni, ma questo è il suo lieto fine. Sono consapevole che è solo un voltare pagina da un passato di enorme sofferenza per guardare oltre, per vedere diritto in fronte quello che la vita può ancora offrirmi. Ho voluto scrivere questo come esempio di recovery, di quel percorso che un malato mentale deve ripercorrere ogni giorno della sua vita poiché la mente di un malato mentale è in divenire.

Schizofrenia – parte prima

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Autore del quadro: Giuliano

Cos’è la mente? E cos’è la salute mentale? E ancora, cos’è la malattia mentale? A queste domande cercherà di rispondere questo libro. Tutto è nato con me e tutto finirà con me. Prima, solo le cose che già esistono, e dopo ciò che sopravvivrà; ma io, la mia coscienza, la mia persona, siamo quel tempo che mi è stato di esistere. Se fossi un perditempo, un bontempone che ama scrivere, e se volessi essere originale potrei sostenere l’ipotesi che il creato non è altro che la raffigurazione della mia mente, che nulla è materiale e che tutto fuori di me è “l’olistica” rappresentazione dei miei sensi. Ciò nonostante, penso che la materia di cui è fatto il mondo e l’universo stesso, siano vita; e la mente è quella che sa organizzare con diversi gradi di giudizio l’esistente.

Nei racconti di mia madre, da bimbo, a confronto con i miei fratelli ma anche con gli altri bambini, ero diverso. Ero affettuoso, introverso e timido, esprimevo una tenerezza che non era comune. Solo nel tempo con gli anni mi son dato una risposta per questa diversità: ero incline all’autismo.

Per indagare una materia bisogna innegabilmente prevederne l’esistenza. Questa considerazione ci può aiutare se vogliamo fare un’indagine seria su ciò che significa “malattia mentale”. Malattia mentale non è sinonimo di follia, non è sinonimo di trasgressione. Si può affermare che la malattia mentale, a diversi livelli, rappresenta un’incapacità di analisi degli stimoli che ci pervengono dall’esterno. La follia è lo scollamento totale con la realtà. La trasgressione, quando si parla di regole, è uscire dall’ordinamento giuridico. Solo una di queste segue un iter giuridico che non prevede l’applicazione del diritto canonico, ed è l’infermità mentale.
Lo sguardo tenero di una madre per il figlio muta di intensità se il figlio soffre; diventa protettivo, se potesse, si sostituirebbe al male. E cambiano gli occhi e il modo di vedere il mondo.

Così, dire quando e perché mi sono ammalato… la risposta che mi sono dato è che la malattia è nata con me. Poi non so se cercare di evitare le linee dei marciapiedi, estraniarmi in classe e fumare spinelli, il non mettermi mai in gioco per non soffrire e vivere una vita mezzana, da soli o tutti insieme questi elementi rappresentano la sintomatologia di una malattia sufficiente per ricavarne una diagnosi.

Fatto sta che la mia diagnosi è quella.

Quei lumi di venerdì sera… a Reggio Emilia

Come stabilito dai Maestri dell’Ebraismo, fin dai tempi della compilazione delle grandi raccolte nel II secolo e.v., fra i precetti della vigilia del Sabato, vi è anche quello dell’accensione dei lumi, e questo appunto al tramonto del Venerdì.

Questo precetto è tradizionalmente riservato alla donna ebrea, che è ritenuta la regina della casa, ed essa è tenuta a recitare la benedizione specifica dei lumi. Da quel momento in poi la  Luce del Sabato entra nella casa con la pace e le benedizioni che ne conseguono. A Reggio Emilia la Comunità Ebraica, già decimata dalle persecuzioni nazifasciste, con una tragica sequela di deportazioni di numerosi membri  e caratterizzata da una  situazione demografica disastrosa, era ormai, all’indomani del conflitto destinata all’estinzione. I superstiti erano poco più di venti. Quando ero ragazzino, mi ricordo oggi, dei molti venerdì pomeriggio invernali, quando il Sabato comincia presto, causa il precoce tramonto del sole, passati nelle due ultime case di Reggio dove si accendevano i lumi in onore della Regina Shabbat.

Una era la casa Ottolenghi, dove viveva Edmea, vedova dell’ultimo officiante della Comunità, che nel 1945 aveva arredato una sala della sua grande casa a Sinagoga nel vecchio ghetto. Ciò nella speranza di poter ripristinare l’ufficiatura, almeno nei giorni più solenni, ma data l’esiguità dei superstiti questo non si verificò. Edmea mi raccontava le vecchie storie della comunità reggiana, quando accendeva il lume, si raccoglieva in preghiera,  e veramente vedevo nel suo sguardo una gioia e una grande pace.

La tradizione di  casa Ottolenghi  finì  nel 1979 quando Edmea si trasferì dai nipoti a Genova dove morì vecchissima nel 1986.

L’ultima casa dove vi era ancora l’accensione dei lumi sabbatici era quella del Prof. Padoa, storico docente di generazioni di studenti di greco al liceo classico. La sorella finiti tutti i preparativi in cucina, di Sabato è infatti vietato cucinare, ci chiamava in salotto  dove accendeva i lumi ad olio, da una lampada sabbatica in loro possesso da secoli. Anche in quella casa si respirava un clima speciale dopo il rito. Poi entrambi  sono mancati attorno agli anni ‘90  e dopo di loro tutti gli ebrei di Reggio. Ora la comunità è estinta. Il venerdì sera penso, talvolta, al fatto che dopo secoli di presenza ebraica a Reggio  non ci sia più la cerimonia di accoglienza del Sabato.

Un po’ di nostalgia e di commozione mi pervadono. Come si dice in ebraico dei Giusti che sono mancati: “Sia il loro ricordo una Benedizione”.